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Scopersi un luogo dove l’acqua s’allarga quasi in un laghetto, limpido ed argentino come la faccia d’uno specchio. Le belle treccie di aliche vi si mescevano entro come accarezzate da una magica auretta: e i sassolini del fondo tralucevano da esse candidi e levigati in guisa di perle sdrucciolate per caso dalle loro conchiglie. Le anitre e le oche starnazzavano sulla riva; a volte di conserva si lanciavano tumultuosamente nell’acque, e tornate a galla dopo il tonfo momentaneo prendevano remigando la calma e leggiadra ordinanza d’una flotta che manovra. Era un diletto vederle avanzare retrocedere volteggiare senzaché la trasparenza dell’acque fosse altrimenti turbata che per una lieve increspatura la quale moriva sulla sponda in una carezza più lieve ancora. Tutto all’intorno poi era un folto di piante secolari sui cui rami la lambrusca tesseva gli attendamenti più verdi e capricciosi. Coronava la cima d’un olmo, e poi s’abbandonava ai sicuri sostegni della quercia, e abbracciandola per ogni verso le cadeva d’intorno in leggiadri festoni. Da ramo a ramo da albero ad albero l’andava via come danzando, e i suoi grappoletti neri e minuti invitavano gli stornelli a far merenda ed i colombi a litigare con questi per prenderne la loro parte. Sopra a quel largo dove il laghetto tornava ruscello erano fabbricati due o tre mulini, le cui ruote parevano corrersi dietro spruzzandosi acqua a vicenda come tante pazzerelle.

— Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano

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