Rime, stornelli, storie, e altro dalla stalla virtuale, ovvero fasemo filò.

FASEMO FILO’

Filastrocche,  stornelli e indovinelli che venivano recitati nelle sere d’inverno nelle stalle, quando la gente si ritrovava a filò, o cantati in occasione di alcune feste campestri.

grazie  al sito dialetticon.blogspot.com

Fasemo filò

I testi che seguono ci sono stati forniti dal signor Lino Sacchetto e dalla signora Maria Favaretto Danesin.

Stornello 1
Batista ga un amore de sposina,
perché spendeva troppo la sgridava.
Ma lei, stancata alfin una mattina,
gli dimostrò che invece non bastava.
Scrivi la lista brontolone !
Quaranta lire per il carbon;
fra carne e pasta altre trecento,
senza contorno, aspetta un momento…

E con la frutta per i bambini
a mille lire siamo vicini.
E poi non è finita, bisogna anche cenare.
Lo vedi mille lire non possono bastare !
Ma allora come posso fare…
di paga prendo novecento lire !

Con un sorriso questa sposetta dice:
– Batista, se mi dai retta,
se chiudi un occhio marito mio
a tutto il resto ci penso io.-
Da quando han fatto quel contratto
sembra che sia molto soddisfatto,
si è comprato anche il cappotto.
Non più fagioli sera e mattina,
ma pastasciutta, carne e gallina !

Stornello Buttati al balcone o ricciolona
dopo la mezzanotte c’è l’aria buona.

Stando al mio balcone vedo chi passa,
vedo il mio caro bene, una ragazza.

La porta mezzo litro con tanti bicchieri,
noi siamo tutta gente senza pensieri.

Prenditi la chitarra e mettiti a suonare
è questa la migliore cosa che devi fare.

0 bella, se vuoi venir con me a Roma,
ti faccio vedere il Papa sentà in poltrona !

E mi conosso na bea putea,
scarpe bianche e rossetto in scarsea.

Ea se dava el neretto soi oci
e in testa ea gaveva …. i peoci!

I venesiani sul ponte i xe fieri,
i va in auto parfin i gondolieri !

I se mete stivai e bareta
anca i simesi in motocicleta.

A ‘sto tempo che va via
a Canaregio me toca morir.

Ma però xe pecà, xe pecà che me toca morir..

(Lino Sacchetto)

Stornello 2

Riva degli schiavoni
ghe gera ‘na bea putea
che quando ne vardava
tirava do bei ocioni.
Gnanca da stupido go domandà la man
la me ga dito: “va remengo fiol d’un can!”

La diga siora Zanze
non se l’abia aver a mal
se ghe digo che nea testa la ga un arsenal!
Tra petini e forchete
e qualche bel nastrin
e soto al coccogneo
ghe boliva el gardelin.

Braghe bianche
Le ga tolte dal mercante
e xe ancora da pagar
la paga la xe poca
robar no se pol
lassar la morosa
l’è un gran disonor

(Maria Favaretto Danesin)

Nota : Questa canzone deve essere piuttosto antica: la cantava la nonna della signora Favaretto nata nella prima metà dell’Ottocento.

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Pensa a un fiume, denso e maestoso, che corre per miglia e miglia entro argini robusti, e tu sai dove sia il fiume, dove l’argine, dove la terra ferma. A un certo punto il fiume, per stanchezza, perchè ha corso per troppo tempo e troppo spazio, perchè si avvicina il mare, che annulla in sè tutti i fiumi, non sa più cosa sia. Diventa il proprio delta. Rimane forse un ramo maggiore, ma molti se ne diramano, in ogni direzione, e alcuni riconfluiscono gli uni negli altri, e non sai più cosa sia origine di cosa, e talora non sai cosa sia fiume ancora, e cosa già mare.

— Umberto Eco, Il nome della Rosa

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